Stranierità 

Manlio Epifania (Orto Circuito Bari)

Leggo sul muro scrostato di un palazzo in città, segnato a spray nero: “nessuno è straniero”. Bene, penso subito, questo è uno degli esiti della calata di un unno in cerca di gloria. Una risposta che esprime un condivisibile sentimento di contrapposizione a chi usa “lo straniero” come una clava con cui colpire e colpire le nostre anime impaurite, lasciando lividi blu di timori antichi. Un gioco al ribasso al quale siamo sempre più esposti.

E allora bene se, seppure in maniera tanto naif quanto scontata, c’è chi si prende la briga di opporre una giusta resistenza portata anche in forma di scrittura pubblica. Bene.

Eppure leggere e rileggere quella frase, testimone di un antagonismo stradaiolo, ha poco a poco messo in moto pensieri sempre meno accordanti alle mani che ne hanno tracciato i segni. Man mano che leggevo, ad ogni passaggio, mi interrogavo e lo faccio ancora perché la scritta è proprio sotto casa mia, su cosa ci fosse di vero, giusto e sintonico in ciò che leggevo. È giusto, mi sono detto dapprincipio, che all’idea sempre più venduta dello straniero portatore di disagio, pericolo, impoverimento, ruberie e ostilità, si contrapponga quello di foriero di arricchimento, opportunità, vitalità. È giusto, mi sono detto, in coro con una certa idea non barbarica, che a lui che arriva sia posta attenzione, accoglienza, disponibilità.

Quindi è giusto che si scriva: “nessuno è straniero”.

Ma, mi sono detto all’ennesima lettura, forse non basta.

Quello che ha ripreso a circolare nei miei pensieri è proprio quell’idea di estraneità e, in contrapposizione, appartenenza, alla quale queste trincee politiche e di pensiero fanno riferimento. Si è straniero, soprattutto in questa era neo-barbarica (con tutto il rispetto per popoli e culture alte e misconosciute), se non si “appartiene” ad una terra, un popolo, una nazione, una squadra, persino un quartiere. Si è straniero se non si riconoscono valori definiti comuni, se non si parla e scrive la stessa lingua, se non si mangia e digerisce lo stesso cibo. Si è straniero se non ci si tinge la pelle dello stesso colore. Si è straniero se non ci si riconosce in una identità, se non hai radici comuni.

È qui che il mio pensiero si snebbia, dirada la bruma benpensante, accogliente e spesso caritatevole, con cui questo “straniero” viene usato anche da chi scrive sui muri. Metto così a fuoco un senso più calzante col mio attuale sentire.

Il difetto di questa visione sta nella visione stessa, un’ottica monodirezionale nella quale esiste un padrone di casa che se buono, accogliente, emancipato, mi verrebbe da dire “di sinistra”, ospita, apre le porte allo straniero, che tale è e tale resta. Accolto, accudito, magari anche educato, ma pur sempre straniero e chi invece in queste porte vorrebbe entrare, chi in “casa mia” vorrebbe essere ospitato, magari anche solo di passaggio. È su questa frontiera di pensiero che si esercita l’attuale contrapposizione sempre più aspra tra ostili impaurenti e accoglienti impauriti, tra chi tende la mano e chi la ritrae. Però siamo solo su una frontiera, ancora una volta, su una barriera divisiva che di per se stessa contrappone.

E se la barriera non ci fosse? Se l’ottica fosse plurima, depurata dalla univocità dell’accogliente, se una volta per tutte ci sentissimo davvero tutti sulla stessa barca, nella stessa casa, sullo stesso albero, nella stessa identica unica terra?

Ecco che l’estraneità che serpeggiava nei miei pensieri si diluisce, fluisce in un più accogliente e caldo, questo sì, senso di unicità, mista, diversa, complessa e per questo “estranea”, quindi per tutti.

Conio allora un termine sbagliato, straniero alle regole, clandestino della grammatica, perfetto per questa mia visione: STRANEIRITÀ.

Nella stranierità scompare definitivamente il “padrone di casa”, il detentore della cultura, giustizia, legge, regolamento, bandiera, divisa e uniforme, il padrone del pallone. Perde senso l’accoglienza comunemente intesa, o peggio l’integrazione, ovvero l’arte sottile di educare lo straniero a leggi, culture, decreti e divieti utili a definire sempre di più i confini, le frontiere e le modalità necessarie per poterle attraversare. Se questa nuova antropologia delle migrazioni ci imponesse finalmente come necessaria la perdita di senso di tutti gli argini che ci siamo posti per sentirci “appartenenti”? Se lo sguardo straniero ci suggerisse una nuova rotta inesplorata verso il territorio ignoto della “stranierità” come via salvifica?

Mi appare sempre più chiaro come sia impellente slacciare le cinture di sicurezza e provare l’ebrezza del salto nel buio, lo stesso che lo o la straniera che bussa alla nostra porta è costretto a provare in cerca di salvezza fisica, economica, sociale, di genere. E più mi addentro in questo labirinto logico più capisco cosa voglio scrivere sul muro: “siamo tutti stranieri!”.

E allora se il gioco è questo, non si tratta più di aprire le nostre porte, calde, comode, ricche, sapienti e avanzate allo straniero che bussa, ma di intraprendere con lei e lui il viaggio verso.

Se siamo tutti stranieri a nulla valgono porte, porti, passa-porti (appunto), bandiere, frontiere, valute, lingue, religioni, o meglio vale tutto e per tutti. Tutto acquista valore, le nostre storie e le altre, ma non perché le dobbiamo, vogliamo, possiamo comprendere, ma perché le dobbiamo vivere e lasciarci vivere nelle loro. La stranierità che immagino è quella che concede a tutti gli esseri viventi lo stesso diritto di cittadinanza perché la città da abitare è unica e uguale per tutti, il luogo non fa differenza anzi ne aumenta i piaceri e le bellezze. In questa scomoda utopia non c’è posto per barriere e quindi neanche per sforzi per abbatterle. È un’unica immensa pianura brulicante di vite dallo stesso peso, valore, bellezza.  In questa immensa casa-senza-casa ognuno è un senza fissa dimora, un sans papiers alla ricerca dell’altro, di quella relazione tra viventi che genera com-unione, com-passione.

A volte furbescamente provo ad intrufolarmi negli occhi dello straniero che incrocio per strada per provarne il senso di inadeguatezza, precarietà, paura. Quelle volte che in un instante credo di riuscirci mi prende una vertigine difficile da spiegare, una sensazione fisica di spaesamento che mi immette, seppure per un nanosecondo, nelle vesti dello “straniero” e così quel disagio provato mi rimette in agio. Quando esco da questa trance penso che sia un esercizio utile per ognuno di noi, per percepire la necessità che abbiamo ormai di essere stranieri a noi stessi, alle nostre case, le nostre vie, i nostri paesaggi, lingue, culture. L’urgenza che abbiamo di andare, corpo e mente verso l’altro e l’altrove, perdere le certezze, coltivare le precarietà, nutrire dubbi, in un nomadismo tanto reale quanto metaforico che ci permetterebbe di valutare appieno il gusto dolce dell’incontro, della relazione vera, della mescolanza impura, il piacere di sporcarsi.

Invece purtroppo mi ritrovo sempre più immerso in una folle corsa alle barricate entro cui sentirsi sicuri, alla costruzione di trincee con cui difendersi, muri e steccati per delimitare ciò che mi appartiene, una difesa armata messa in atto non solo da chi non la pensa come me, ma anche e soprattutto di chi è dalla mia stessa parte della barricata, che in buona fede si impegna ogni giorno ad accogliere, integrare, istruire, modellare lo straniero così da esercitare quel diritto alla uguaglianza del quale noi però teniamo ben salde le redini, per non esserne disarcionati.

Eccolo spiegato il disturbo che la scritta sul muro mi ha provocato, leggero prima, sempre più profondo mano a mano che il pensiero srotolava le sue connessioni, logiche per me, forse non per altri, stimolanti, sicuramente. Eppure come ogni dis-agio, dis-turbo, ha provocato una re-azione tanto utile quanto necessaria che mi ha aperto nuovi spiragli nei quali lasciare intrufolare il vento della utopia.

 


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