"Per fermare il contagio bisogna limitare l'interazione sociale". Questo il messaggio che ci viene ripetuto in ogni momento da qualsiasi mezzo di comunicazione. Certamente limitare alla stretta necessità l'incontro diretto è uno strumento necessario.

Ma "interazione sociale" non è solo l'incontro diretto. E' anche il racconto reciproco, lo scambio, il sostegno, la solidarietà.

Per questo diciamo #iorestoSolidale. E nei tanti spazi e collettivi di Fuorimercato cerchiamo di praticare questa solidarietà - a distanza, ma molto concreta.

In questo sito nelle prossime settimane ci impegneremo a pubblicare brevi racconti dalla quarantena, storie che nessuno racconterà mai, storie che mettono in luce le difficoltà dei/delle più a vivere questa situazione. Sono racconti che non riguardano pochi* di noi, che tolgono dall'ombra quello che accade in Italia davvero e che ci aiutano a disintossicarci dalla narrazione mainstream "tutto andrà bene".


 

Gerardo Reyes Chávez, Coalition of Immokalee Workers*

Soltanto un paio di mesi fa, il coronavirus sembrava una minaccia lontana per la maggior parte degli statunitensi. Ricordo di essermi allora imbattuto in un articolo sul Washington Post dai toni molto gravi, controcorrente rispetto all’atteggiamento generale, sui rischi della pandemia. Per spiegare le ragioni della sua preoccupazione, l’autrice del pezzo rispolverava il noto indovinello della ninfea e del lago: in uno stagno di una certa dimensione, si trova una ninfea che si riproduce ogni giorno. Il secondo giorno, ci saranno due ninfee, il terzo quattro, e così via. Se le ninfee impiegano 48 giorni per coprire completamente lo stagno, quanti giorni ci vogliono prima che il lago sia coperto a metà? La risposta è 47 giorni, con la precisazione, non di poco conto, che al quarantesimo giorno le ninfee saranno appena percettibili. Ora, sostituendo il termine ninfee con coronavirus, la lezione è questa: quando qualcosa di pericoloso cresce in modo esponenziale, tutto sembra andar bene fin quando non è troppo tardi. La spirale  discendente quindi non è solo inevitabile, ma anche più ripida laddove è già presente una condizione di vulnerabilità più elevata.

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Spartaco*

Dai Marti mettiti a letto che ti racconto una storia che ti faccio addormentare. Ieri sera prima di staccare ho visto che dormivi serenissima, incredibile posso farti dormire tranquilla a te che sei grande....

“C'erano una volta due ragazzini che si chiamavano Cesare e Valentina che avevano un cane che si chiamava Martina. I due ragazzini però un giorno si svegliarono e non trovarono più delle cose, Valentina la mamma e Cesare la maglietta, i pantaloni, i calzini e perfino le mutande.

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Fernanda Tavares e Tainá Caitete*

Il mondo sta vivendo un periodo di caduta. Sono molte le incertezze che si presentano in questo momento di pandemia causata dal nuovo coronavirus. Nel campo sociale più ampio vediamo la preoccupazione dei governi nel raggiungere misure per contenere l'avanzamento del virus e la corsa per fornire cure assistenziali mediche per il numero di infettati che cresce vertiginosamente.

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Antonella Angelini*

Una manciata di giorni fa, in un intervento sul Corriere, Paolo Giordano, citava la seguente frase di Marguerite Duras: “Già s’intravede la pace. È come un grande buio che cala. È l’inizio dell’oblio”. Ammonendo con ragione contro il frequente accostamento tra guerra e pandemia, Giordano esortava a prevenire l’oblio stilando sin d’ora la lista di tutto ciò che, dopo, non si vorrebbe dimenticare. Parlare di un prima e un dopo è, intendiamoci, artificio labile e, in questo caso, è particolarmente manifesto il suo intento confortante. Ma il paradosso di associare il buio al dopo rende la riflessione quanto mai ancorata al presente, un tempo che parimenti impone di resistere ad una gravità oscura. Almeno così ho l’impressione, soprattutto quando, a fine lista, arriva il monito a non dimenticare che la pandemia non ha avuto origine in un complotto militare, ma nel “nostro rapporto compromesso con l’ambiente e la natura, nella distruzione delle foreste, nella sventatezza dei nostri consumi”.

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Mirko Petrelli

Vivo a Bergamo da Giugno 2019 e dopo una piccola pausa salentina ci sono ritornato per motivi di lavoro. Dopo nemmeno due settimane dal mio ritorno in città mi sono ritrovato in quello che all’inizio sembrava una cosa passeggera, una semplice influenza, come la chiamavano i media e, con un certo senso di colpa, anch’io. Poi i resoconti giornalieri della protezione civile, 200, 500, 750 e poi il triste record, di qualche giorno fa, di quasi 1000 morti.

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Elisa Pastore

"Allora Gretel (perché da qualche giorno lei è Gretel e io sono Hansel e forse è il suo modo di raccontarsi le cose, come se stessimo in una favola). Allora Gretel fuori c'è un virus e siccome nessuno di noi se lo vuole prendere, perché sennò dobbiamo prendere lo sciroppo, abbiamo deciso tutti insieme di rispettare delle semplici regole" "Bellissimo mamma! Ma poi quando finisce tutto posso andare ai gonfiabili?" Alla fine spiegare a nostra figlia il Covid19, non è stato poi così difficile. "Mamma facciamo un giro in bici?". Più difficile è spiegare il concetto di quarantena.

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Sara Manisera*

Fatico a trovare la concentrazione. Fatico a leggere. Allora provo a scrivere. A mettere nero su bianco una serie di pensieri confusi e disordinati in questo tempo sospeso. Si accavallano le inquietudini. Esco in giardino a prendere una boccata d’aria. Una nube nera incombe. Mi sento in colpa a poter uscire in giardino. Sì, mi sento in colpa. Perché io posso uscire in giardino. E allora vorrei dirlo a gran voce, farlo rimbombare in ogni redazione giornalistica che questa “pandemia” svela ancora di più le diseguaglianze. Possiamo parlare delle diseguaglianze santo cielo?

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Giulio Iocco


San Sebastiano al Vesuvio – 24 Marzo 2020
Sono passati quindici giorni da quando il primo ministro è apparso in televisione per comunicare l’approvazione del decreto #IoRestoACasa, due settimane dall’inizio di questa reclusione forzata tra le mura domestiche che sembra ogni giorno più difficile da tollerare. Oggi è martedì, e mentre la macchina mediatica annunciava che a breve si sarebbe tenuta una nuova conferenza stampa del primo ministro in cui sarebbero stati illustrati i contenuti di un nuovo decreto governativo, io, come ogni martedì, sono uscito per andare a fare la spesa.

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Massimo Alberti*

A Milano almeno 300mila lavoratori costretti a muoversi per lavorare in aziende ed imprese non essenziali. E i controlli? Non ci sono.

Meno “passeggiate”, meno jogging, parchi chiusi. Il governo ha deciso di stringere ancora le maglie nei confronti dei comportamenti individuali, con l’obbiettivo di colpire chi esce di casa senza un motivo valido e frenare la diffusione del coronavirus. I provvedimenti però continuano ad ignorare il grosso degli spostamenti non necessari: quelli legati a chi è costretto a spostarsi per lavorare in quei settori ritenuti non essenziali dai decreti del governo.

La gestione di questi settori è stata delegata all’accordo tra governo, sindacati ed imprese, delegando di fatto alla contrattazione ed ai rapporti di forza nelle aziende sia la decisione di chiudere, sia l’applicazione delle misure di sicurezza e tutela di chi lavora.

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Ci dicono di stare a casa, di non creare assembramenti e di non incontrare i nostri cari e le nostre comunità/ relazioni che con fatica ci siamo costruit* nel tempo, ci chiedono di essere tutt* responsabili dentro le nostre quattro mura domestiche. Ci sentiamo spaesati, abbiamo paura e con un nuovo decreto al giorno si fatica a comprendere quale sia il “comportamento giusto” da tenere.

Allora facciamo uno sforzo e almeno con la mente usciamo da casa nostra, luogo dove magari noi stiamo a nostro agio, siamo al caldo, ci sentiamo al sicuro, certo ci annoiamo, passiamo molte ore fra letto, divano e frigorifero, ma in fin dei conti stiamo bene. Ora ci troviamo in un'altra casa invece in Lombardia ma potremmo essere a Roma o a Palermo, non importa potremmo trovarci in una qualsiasi città italiana, in un qualsiasi quartiere o paesino, dove vive una famiglia, ma non quella che appare nella pubblicità del mulino bianco o forse proprio quella. Una famiglia composta da una donna, che è anche madre, che appena hanno chiuso le scuole ha dovuto rinunciare al suo precario lavoro, perché non c’erano i soldi per pagare la baby sitter e sul posto di lavoro non le hanno dato alternativa in quanto il suo era un contratto atipico di collaborazione occasionale.

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