Carcere, antimafia, territori e lotte. Note a margine di un incontro in Sicilia

Documento redatto a margine di un incontro su carcere e antimafia svoltosi al Circolo Arci Pasol a Partinico il 6 Maggio 2023.

La ragione risiederebbe nel fatto che la magistratura antimafia, anche se non vuole limitarsi a perseguire gli ultimi anelli della catena del traffico – cioè i cosiddetti ‘scafisti’ –, ma vuole, al contrario, arrivare ai vertici internazionale del traffico di esseri umani, per fare questo ha

A cura del gruppo carcere Fuorimercato e della Casa del Mutuo Soccorso FM Sicilia.

 

1.    Carcere, 41-bis e (anti)mafia

Con questo documento vogliamo ragionare sul senso della pena.

Oggi il carcere italiano è lo specchio del fallimento di decenni di politica italiana che non si è occupata di tutelare le fasce più deboli. Il carcere è diventato una discarica sociale, dove finiscono soggetti vulnerabili che non hanno accesso a diritti di base e welfare; di conseguenza, molti dei ‘reati’ che riempiono le carceri sono ‘reati di sopravvivenza’. Lo dimostrano i tassi di recidiva, quasi al 70%.

Che senso ha dunque la pena?

Nel dibattito pubblico, nonché nella pratica giuridica e carceraria, c’è un’idea prettamente vendicativa della pena, in cui la funzione rieducativa, di reinserimento nella comunità, è completamente assente. Il risultato è che, in maniera sempre più drammatica, il carcere diventa un luogo lesivo della dignità umana.

Sul piano teorico, il legislatore ha dato alla pena una finalità rieducativa. Le pene non dovrebbero ledere i diritti fondamentali delle persone e bisognerebbe fornire strumenti che possano incidere sul reinserimento nel contesto di appartenenza. Ci sono numerosi fattori che portano una persona a commettere reati, e bisognerebbe lavorare su aspetti multipli. Per ricomporre quella frattura tra autore del ‘reato’, ‘vittima’ e comunità intera. La pena concepita come mera punizione, animata da sentimenti di rabbia e di vendetta, non ha alcun effetto positivo né in termini di prevenzione generale (come deterrente per altri cittadini dal commettere reati) né di prevenzione speciale (come deterrente per chi ha commesso un reato dal tornare a delinquere); piuttosto incattivisce, attraverso la mortificazione dei bisogni e dei diritti fondamentali ed amplifica la frattura delle relazioni, la divisione sociale e la stigmatizzazione. Dunque, affinchè la pena abbia un senso deve essere finalizzata a ricomporre quella frattura, agendo su tutte le parti coinvolte, chi ha commesso il reato, vittime e intera comunità, e rendendole attive nel processo di ricomposizione delle relazioni.

 Ci sono però numerosi ostacoli a questo percorso ideale:

  1. Il sovraffollamento carcerario: ci sono 56.000 persone detenute, con tassi di sovraffollamento del 106%;
  2. Ci sono 12.000 persone in attesa di giudizio o custodia cautelare. Ci sono dei casi limite di persone che per 3-5 anni si trovano in carcere anche se poi vengono dichiarate innocenti. Anche a causa delle lunghe tempistiche della giustizia. Altri casi limite sono quelle persone che, dopo 3-5 anni in attesa di giudizio fuori dal carcere, durante i quali si sono costruite una vita, vengono poi condannate e sbattute in
  3. Altre criticità sono legate alla popolazione carceraria con dipendenze e affetta da patologie psichiatriche. Le carceri sono piene di persone con problemi psicologici e mentali certificano il fallimento di istituzioni di prevenzione e cura fuori dal carcere. Rispetto alle dipendenze, in carcere c’è il SERT che, però, si limita a fornire metadone, ma non fornisce assistenza sanitaria e psicologica completa, contribuendo a rendere le carceri un luogo in cui ci si ammala. Rispetto ai soggetti psichiatrici, questi sono diventati un vero e proprio target dell’istituzione carceraria, dal momento che le Rems sono 30 in tutta Italia, quindi con un numero di posti molto limitato, e tutti quelli che restano fuori finiscono in carcere. Le liste di attesa per le Rems sono a volte anche di anni. E le persone in attesa rimangono nelle ATMS all’interno delle carceri, strutture usate spesso anche per il contenimento e la somministrazione di L’anno scorso sono stati registrati 11.000 gesti autolesivi nelle carceri e 80 suicidi. Il carcere è un’istituzione violenta. Basti pensare alle celle lisce (prive di suppellettili), usate come strumenti di contenimento in cui le persone vengono messe nude per evitare che si possano fare del male durante momenti di crisi, ma in condizioni lesive della dignità umana. Tutti questi soggetti dovrebbero essere presi in carico dai servizi fuori dal carcere e dalle comunità.
  4. Detenuti stranieri extra-UE. Tantissimi si dichiarano innocenti. Ci finiscono perché le politiche governative sono apertamente razziste e marginalizzanti. Su questo torneremo più avanti.

Ma di chi è la responsabilità di questa situazione?

Le condizioni nelle carceri sono state determinate da scelte politiche. L’attuale situazione è il risultato di 40 anni di politica dell’emergenza, basata su giustizialismo e populismo giuridico. Su questo terreno non c’è stata differenziazione nello spettro politico. Si parla spesso dell

Costituzione, ma quasi mai dell’articolo 271. Quindi di carcere se ne parla pochissimo, anche nella società, anche tra di noi. Se n'è tornato a parlare con lo sciopero della fame di Alfredo Cospito.

 

1.1  Il 41-bis

Il 41-bis2 coinvolge un numero esiguo di persone, 750 persone, di cui 12 donne, 230 ergastolani e più di 200 persone in attesa di giudizio. È stato introdotto in relazione ai reati di mafia negli anni ’90. Ma in realtà, a partire dalla riforma del ‘75 l’ordinamento penitenziario già conteneva alcuni elementi che hanno permesso di arrivare al 41-bis: 1. il trattamento differenziato (diversificazione dei regimi detentivi), 2. la premialità (benefici diversi in base alla condotta).

Sono principi alla base dell’organizzazione carceraria, e sono profondamente discutibili.

I germi sono poi diventati articoli di legge. Il 41-bis è stato introdotto nel 1986 come meccanismo eccezionale in caso di rivolte, per motivazioni specifiche e per un lasso temporale limitato. Sembrava quasi una misura precauzionale. La sua applicazione, però, cambia già nel ’92, quando viene legato al 4-bis3. 4-bis e 41-bis insieme portano alla sospensione delle misure ordinarie della vita carceraria, inizialmente per periodi non inferiori ad un anno e non superiori a due, purché non sia venuta meno la capacità del detenuto di mantenere contatti con queste associazioni. Nei fatti, però, il legislatore si è sempre preoccupato di far iniziare il 41-bis, ma non di farlo cessare. In più c’è un evidente capovolgimento del principio di legittima difesa, dal momento che è il detenuto a dover dimostrare di non avere contatti con l’esterno, e non la Amministrazione a doverlo dimostrare.

Le condizioni di vita all’interno del 41-bis sono gravemente degradanti: limitazioni ai beni e oggetti che possono essere ricevuti dall’esterno (ai libri si può accedere solo dalla biblioteca del carcere), divieto di rapporto con estranei e limitazioni anche dei rapporti con i familiari ; colloqui con i familiari con divisori, registrazione dei colloqui; permanenza all’esterno (l’ora d’aria) ad oggi ridotta ad un’ora sola (con tre persone). In più negli anni, sono emersi tutta una serie di problemi relativi alla gestione del 41-bis e all’impatto sulla vita dei detenuti: in primis, l’impatto sulle condizioni psico-fisiche delle persone detenute in questo regime al limite della deprivazione sensoriale ; il rinnovo automatico del 41-bis; l’accumulo di molte restrizioni; il rigetto sistematico dei ricorsi; e, più in generale, l’evidenza che la gestione del 41-bis avviene al di fuori di qualunque logica trattamentale.

Quali strumenti ha un detenuto al 41-bis per uscire? Il reclamo contro il provvedimento, che però può essere inviato esclusivamente al magistrato di sorveglianza di Roma, e non ai magistrati competenti in base al luogo di detenzione . C’è quindi un chiaro accentramento da parte dello stato di questa funzione. In più,nel caso di respingimento del reclamo (il che avviene nella stragrande maggioranza dei casi), i costi legali sono a carico del detenuto.

Ma arriviamo al problema dei problemi. Questa norma è conforme ai principi della costituzione o meno? La corte costituzionale non si è mai pronunciata contro il 41-bis, ma ha emesso un certo numero di sentenze che ne colgono puntualmente le contraddizioni: il 41-bis non si dovrebbe applicare ad “una categoria di detenuti individuati a priori in base al titolo di reato, ma solo a singoli detenuti per delitti di criminalità organizzata per i quali è comprovata la permanenza di rapporti con un’eventuale associazione esterna”; le disposizioni di restrizione devono riguardare solo questi collegamenti reali, tutto il resto non c'entra; non dovrebbe riferirsi a una categoria che sfugge alle ‘regole di socializzazione’ e che per questo andrebbe ‘punita’.

In merito a questo, il Garante dei detenuti nell’ultimo rapporto sul 41-bis4 ha posto una domanda cruciale: se il numero detenuti 41-bis continua ad essere sostanzialmente uguale (nell’ultimo anno sono uscite 2 persone), allora quale è la effettiva finalità e quale l'efficacia di questa norma? Evidentemente non si tratta tanto di impedire i collegamenti con e verso l'esterno, quanto di istituire un regime di segregazione afflittivo che attraverso condizioni di isolamento e deprivazione mira a spezzare le resistenze e ad indurre il prigioniero alla resa.Un sistema di detenzione meramente punitivo e degradante senza nessuna prospettiva e possibilità di risocializzazione.

Di fronte a questa evidente logica punitiva del regime dal 41-bis le conclusioni non possono che essere due.

O la pena è uno strumento di vendetta da parte dello stato verso i suoi ‘nemici, ma questo sarebbe in aperto contrasto con quanto stabilito nell’art.27 della costituzione che vieta trattamenti contrari al senso di umanità o che vanifichino la finalità rieducativa della pena, oppure è un mezzo per costringerli alla collaborazione, e in questo caso abbiamo a che fare con uno strumento per cui si deve parlare a tutti gli effetti di tortura.

Lo consideriamo accettabile?

 

1.2  Narrare la (anti)mafia

Come è emerso attraverso la genealogia del 41-bis, di fronte al sistema punitivo, il mafioso è uno dei principali portatori dello stigma, anche, e soprattutto, per come è raccontato nel dibattito pubblico.

La domanda, però, è: quali sono le possibilità di comunicare all’esterno di un circolo di persone già sensibilizzate il problema della punitività del sistema carcerario?

Sicuramente, ripensando il modo in cui raccontiamo la mafia in sé. Abbiamo a che fare con uno stigma che difficilmente riusciamo a smontare. Le carceri sono piene di persone che stanno dentro per reati associativi e la maggior parte di queste ci finiscono perché questa rete di relazioni è l’unica possibile, o una strada tra le altre (la cosiddetta mafia stracciona).

Il problema è che il fronte antimafia ad oggi è fortemente legalitario, e il risultato è che la risposta legalitaria accetta e sostiene la repressione5: con lo stato contro la mafia, nel bene e nel male. Questo fenomeno riguarda soprattutto quei ceti medi siciliani, urbani, che si definiscono ’sinceri antimafiosi’.

In questo senso, lo stigma ha funzionato: nessuno dei ‘sinceri antimafiosi’ darebbe consenso alle figure della mafia stracciona6. C’è però molto consenso nei confronti del potere politico-mafioso, che rimane dunque impunito. Nelle carceri, invece ci finisce in grossa parte la mafia stracciona, quella a cui nessuno dei ‘sinceri antimafiosi’ vorrebbe appartenere.

Riusciamo a trovare dei discorsi e delle pratiche che riescano ad intercettare anche chi pensa che il carcere sia un bene, e rispetto al mafioso ancora più chiaramente?

 

2.    Oltre il carcere: liberarci e costruire comunità

Il tema centrale è di provare ad agire a partire dal fatto che l’articolo 27 della costituzione non è applicabile alla maggior parte dei detenuti e delle detenute.

Un primo punto è che molte persone detenute non possono uscire dal carcere perché non hanno un domicilio: diventano così ‘abusive’ del carcere. Sono la maggior parte di coloro che finiscono in galere per fame (di cibo, di sostanze o perché non hanno i documenti). Ancor prima che all’interno delle carceri, mancano delle possibilità e delle risposte all’esterno.

Un secondo punto è che il carcere è diventato il succedaneo dei manicomi. Anche in questo caso, si tratta di dare delle risposte all’esterno e non all’interno dell’istituzione carceraria. Bisognerebbe lavorare sul concetto di comunità. Le dipendenze e i problemi psicologici sono situazioni che andrebbero affrontate in tutti i modi tranne che con il carcere. Altrimenti il carcere rimarrà e continuerà a diventare una struttura dalle porte girevoli, in cui si entra e si esce.

Il carcere allora diventa una questione societaria: siamo di fronte ad un’emergenza sociale, e dobbiamo affrontarla con delle risposte economicamente e culturalmente adeguate.

I problemi delle carceri sono i problemi della società. Quello che è la sanità in carcere è la sanità fuori.

Quella che è l’assistenza alle donne e alle madri dentro al carcere è la stessa che c’è fuori. C’è una connessione perfetta con il territorio. Dobbiamo far convergere i nostri bisogni e le nostre volontà di venir fuori da queste situazioni, a tutti i livelli.

Dobbiamo liberarci della necessità del carcere. I presupposti sono ancora necessari, i messaggi vanno lanciati, ma vanno costruite anche le alternative.

Si dovrebbero coinvolgere reti sociali al di fuori di quelle che si occupano di carcere. Si deve parlare di carcere nella società. Far conoscere i progetti nella società per tornare a rimettere in discussione alcune questioni che oggi sono sempre più difficili da scardinare, come l’ottenimento delle misure alternative al carcere.

Un esempio. A Milano, la comunità il Gabbiano7 ha avviato un progetto che si chiama “Donne oltre le mura”8. Si rivolge a donne che potevano teoricamente uscire dal carcere, ma che, per motivi soggettivi (tra cui i maltrattamenti) o oggettivi (mancanza di casa), sono rimaste intrappolate in carcere. Negli ultimi sei anni, di 80 donne che hanno preso parte al progetto, venendo messe nelle condizioni di poter accedere a delle case e dei luoghi sicuri, solo una di queste è tornata in carcere.

Un’ altro esempio viene dal carcere di Bologna. Questo progetto è un’officina meccanica9 dentro il carcere, in dieci anni ha fatto uscire 50 persone in misura alternativa, di cui ne sono rientrate cinque. Quindi il 10% di recidiva rispetto al 70% in condizioni normali.

Quello che queste esperienze mettono in evidenza è che quando crei crei condizioni diverse, risultati diversi sono possibili. A maggior ragione, quando le persone che hanno commesso i reati in condizioni di precarietà vengono messe in condizione di potere avere delle alternative, spesso scelgono questo tipo di alternative. Questa è una strada necessaria se vogliamo ridurre il numero di quelle persone che occupano ‘abusivamente’ il carcere, che sono più della metà delle persone incarcerate.

Un grosso ostacolo è però che le alternative o non ci sono o sono molto ridotte numericamente. Inoltre, queste realtà sono gestite spesso da chi in carcere c’è stato e conosce le dinamiche che possono portare alla carcerazione; allo stesso tempo, però, molte altre di queste realtà sono gestite dalla chiesa che, invece, vive questi progetti come un aiuto caritatevole.

In ogni caso, la stragrande maggioranza di queste realtà si basa sul volontariato, fatto in grossa parte da pensionati e giovani. Ora, i primi vanno in pensione a 67 e questo cambia radicalmente le possibilità di attivarsi al di fuori della sfera del lavoro salariato; i secondi, invece, vivono una vita sempre più precarizzata, in cui vengono spinti e costretti a mettere a valore ogni momento della loro vita.

C’è un problema politico e culturale rispetto al quale non si può prescindere facendo finta di nulla. Ci deve essere una battaglia culturale per permettere alle poche realtà esistenti di crescere.

Bisogna poi intervenire anche dentro al carcere, su due punti prima di tutto: lo storico problema del sovraffollamento; e l’utilizzo indiscriminato di psicofarmaci. Queste due situazioni rendono in molti casi impossibile entrare nei reparti oltre che per gli agenti della penitenziaria, anche per gli educatori (il cui numero è fortemente limitato rispetto al numero di detenuti).

C’è infine un rapporto tra la durezza del 41-bis e la durezza delle carceri. Sul 41-bis possono fare molto le organizzazioni antimafia, che dovrebbero liberarsi da un discorso per cui colui che è stato condannato per mafia è immodificabile, per cui è impossibile fare un lavoro con queste persone. Dobbiamo rompere le barriere dentro di noi. Antimafia è battersi per i diritti umani delle persone detenute, anche quelle mafiose.

In questo senso c’è una speranza nelle nuove generazioni, che hanno una sensibilità diversa da quelle delle precedenti generazioni antimafia che sono figlie della stagione del giustizialismo, in cui si è lasciato che fossero le magistrature a dettare che cosa fosse l’antimafia.

 

3.    Carcere, migranti e lotte sociali: una prospettiva dalla Sicilia

La Casa del Mutuo Soccorso FM Sicilia da anni sostiene i lavoratori e le lavoratrici braccianti di Campobello di Mazara10. In questo e in altri luoghi in cui questa fetta di popolazione mobile si ritrova, tra cui i centri urbani e altre zone agroindustriali del sud Italia, ci confrontiamo quasi quotidianamente con la presenza del carcere e della detenzione come spettro materiale e simbolico nella vita di queste persone.

Come è possibile?

Partendo dai dati, nel 2023, su quasi 56.000 persone detenute in Italia, 17.687 sono persone straniere (ca. 32%). Un numero in costante aumento e che riguarda in larga parte ‘reati di sopravvivenza’.

Senza dimenticare i centri di detenzione amministrativa (a Torino, Milano, Roma, a Macomer in Sardegna, a Bari, Brindisi, Palazzo San Gervasio in Basilicata, a Caltanissetta e Trapani) che, oltre a detenere persone senza documenti (meno della metà delle quali viene effettivamente deportata), funzionano in maniera sempre più chiara come uno strumento di controllo sociale e repressione, in piena sintonia con le istituzioni carcerarie.

Come già ampiamente emerso in questo documento, in un contesto socio-economico in cui i tagli al welfare vengono sempre di più compensati con l’espansione dell’apparato repressivo, le persone migranti sono tra quelle maggiormente colpite.

È in primo luogo il movimento stesso di queste persone, che attraversano mari e confini in maniera illegalizzata, che le rende più esposte alla violenza del sistema carcerario. Sappiamo bene quanto sia difficile ottenere un documento in Italia, e quanto stia diventando sempre più difficile, in un continuum che non vede grosse differenziazioni tra governi di centro-sinistra, “tecnici” o di destra. E sappiamo bene anche quanto non avere documenti o avere documenti temporanei abbia un impatto diretto sulla possibilità di accedere a diritti primari garantiti, tra cui, prima di tutto, il diritto alla casa e alla salute. E come, tutto questo abbia conseguenze psico-fisico-emotive sulla vita delle persone, costantemente precarizzate.

D’altra parte, di fronte e oltre l’abbandono e la violenza imposte dallo stato, le persone migranti si organizzano attraverso reti transnazionali, non prive di rapporti gerarchici e di sfruttamento, che sono però necessarie alla sopravvivenza di molte persone. E, chiaramente, anche per questo le persone migranti sono sempre di più prese di mira.

Ci focalizziamo su due situazioni nel nostro territorio che mettono in relazione carcere, antimafia e lotte sociali.

 

3.1  I “pericolosi scafisti”. Antimafia e migrazioni

Il primo punto riguarda la criminalizzazione dei cosiddetti ‘scafisti’, esempio lampante di criminalizzazione delle migrazioni. Dopo aver chiuso tutte le vie sicure per arrivare nel nostro paese, l’Italia da anni criminalizza le persone che guidano, o vengono indicate come quelle che guidano, le barche che arrivano sulle coste siciliane (ma anche pugliesi, calabresi e sarde).

Come riportato nel rapporto “Dal Mare al Carcere”11, queste persone sono accusate in primo luogo di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina (Articolo 12 del Testo Unico sull’Immigrazione, TUI), ma possono essere accusate anche di associazione per delinquere, omicidio plurimo, colposo o per lesioni personali colpose.

È molto difficile riuscire a ricostruire una cifra esatta delle persone processate e incarcerate per questo reato, ma ad oggi sappiamo che ci sono persone condannate all’ergastolo, e altre a pene superiori ai dieci o vent’anni di carcere.

Un dato importante è che tutti i casi di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina sono attenzionati dalla Direzione Distrettuale Antimafia (DDA).

Come mai la DDA ha così tanto interesse verso questi casi? E cosa c’entra la legislazione antimafia con la migrazione? Infatti, il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina non comporta necessariamente anche un’accusa di associazione per delinquere, né tanto meno quella di associazione per delinquere di stampo mafioso.

La ragione risiederebbe nel fatto che la magistratura antimafia, anche se non vuole limitarsi a perseguire gli ultimi anelli della catena del traffico – cioè i cosiddetti ‘scafisti’ –, ma vuole, al contrario, arrivare ai vertici internazionale del traffico di esseri umani, per fare questo habisogno comunque di avere tutte le informazioni utili possibili, comprese quelle inerenti ai procedimenti cosiddetti minori.

A livello materiale e simbolico, però, si va accrescendo un pericoloso avvicinamento tra narrazione e stigmatizzazione delle persone migranti e delle questioni legate alla mafia, con conseguenze drammatiche sugli spazi di agibilità politica e discorsiva che provano a mettere in discussione la violenza delle frontiere.

Di migrazioni si parla male e a sproposito, con una postura che oscilla tra la criminalizzazione delle persone migranti e la loro vittimizzazione, senza che però le voci delle persone vengano mai prese in considerazione.

 

3.2  Vittime o criminali. C’è spazio per le lotte sociali?

Dall’arresto di Matteo Messina Denaro, Campobello di Mazara è finita al centro di riflettori mediatici che hanno riprodotto tutte le narrazioni su mafia e antimafia di cui parlavamo sopra. Eppure tra le decine di campobellesi intervistati nelle settimane dell’arresto, non si è mai visto uno dei lavoratori o delle lavoratrici migranti che ormai da dieci anni vivono o attraversano per lavorare questo territorio.

Che pensano della mafia i lavoratori di Campobello? E, ancora prima, che spazi di parola sono lasciati a questi lavoratori?

Per le istituzioni locali, i lavoratori sarebbe meglio se non parlassero. A Campobello di Mazara, come in tutte le campagne d’Italia, i lavoratori sono utili ma razzializzati e, al massimo, trattati come vittime da salvare (da un sistema che è la causa stessa dei loro problemi).

A Campobello, come in tutte le altre campagne d’Italia, ai lavoratori vengono al massimo offerti servizi di tipo assistenziale, campi emergenziali e progetti raffazzonati.

Anche la legge contro il caporalato, per quanto tenti di affrontare un problema in molti casi reale, utilizza lo strumento della repressione penale per un fenomeno che è in realtà di natura strutturale, in quanto connesso a modi di produzione, in questo caso quella agroindustriale.

Attraverso lo strumento penale, come è stato rilevato12, i lavoratori rimangono solo con armi spuntate sul piano delle tutele del lavoro, sindacali e sociali. Infatti, il piano penale li riconosce come portatori di diritti solo qualora si prospettino come ‘vittime’.

Il punto centrale è proprio che, a Campobello e altrove, a dispetto dei tentativi di invisibilizzazione e pacificazione di istituzioni e imprese, i lavoratori sono da anni protagonisti di una lotta che mette al centro temi come il lavoro, la salute e la dignità. Una lotta in molti casi malvista, se non addirittura criminalizzata, ma che nei fatti mette in discussione i confini di una società che, altrimenti, reprime tutto ciò che sta ai margini e critica la sua riproduzione.

Una lotta necessaria che interseca tutto ciò di cui abbiamo parlato oggi: una lotta per i diritti del lavoro, per la cura dei territori e della terra; una lotta contro il carcere, la detenzione e le forme di criminalizzazione dell’esistenza; in ultimo, una lotta in territorio di mafia, che rompe con gli schemi legalitari e mette al centro le relazioni di solidarietà.


 1 Art. 27: “La responsabilità penale è personale. L'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.”

2 Regime di “carcere duro”, in cui vengono sospese le normali regole del trattamento penitenziario (trattamento differenziato).

3 Per una serie di reati, la possibilità di usufruire di misure alternative è legata alla collaborazione del detenuto (premialità).

4 Il rapporto può essere letto integralmente qui: https://www.garantenazionaleprivatiliberta.it/gnpl/pages/it/homepage/dettaglio_contenuto/?contentId=CNG1513 3&modelId=10021

5 Per un’analisi approfondita, vedere https://jacobinitalia.it/la-svolta/

6 Per un’analisi approfondita, vedere https://jacobinitalia.it/messina-denaro-e-la-borghesia-mafiosa/

7 https://gabbianoodv.it/

8 https://gabbianoodv.it/progetti/

9 Del progetto parla il film “Meno male che domani è lunedì” (Tomato DOC&FILM, 2014) di Filippo Vendemmiati (https://openddb.it/film/meno-male-e-lunedi/). Se ne parla anche nel libro “Ruggine, Meccanica e Libertà” (Alegre, 2018) di Valerio Monteventi.

10 Nel 2022, attivisti/e e braccianti della Casa del Mutuo Soccorso FM Sicilia, insieme a diverse altre realtà solidali, hanno redatto un dossier che contiene le rivendicazioni dei braccianti, consultabile qui: https://www.fuorimercato.com/agroecologia-lavoro-migrante/404-le-nostre-braccia-i-nostri-diritti-il-documento-riv endicativo-su-agricoltura-lavoro-abitare.html

11 Il report è consultabile qui: https://dal-mare-al-carcere.info/

12 Per un’analisi approfondita, vedere https://www.rivistailmulino.it/a/caporalato-effetti-penali-e-limiti-della-legge

 


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